La tela del diavolo - UNICORN

Associazione Culturale Editoriale Unicorn
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Gianfranco Pereno
LA TELA DEL DIAVOLO
La trilogia del mistero
“Trilogia del mistero”, tre thriller che pur raccontando storie completamente diverse tra loro, grazie a personaggi  ricorrenti permettono di gettare uno sguardo sul mistero e sul soprannaturale.
Con il primo romanzo della trilogia, “La tela del diavolo”, l’autore ci porta a incontrare il mondo inquietante della Magia, dove anche se chiaramente dichiara di intenderla come forma superiore di conoscenza, cui corrisponde una concezione del mondo retto da forze spirituali, rimane pur sempre nell’alone dell’arcano, dove inaspettate incursioni nel modo della meccanica quantistica e nelle teorie dei viaggi nel tempo, portano il lettore a inoltrarsi nei misteri che da sempre circondano l’umanità. Streghe, demoni, draghi, si mescolano ad assassini seriali e a scienziati disillusi, in un caleidoscopico susseguirsi di colpi di scena dove ogni volta l’idea che il lettore che si è fatto della trama, viene sovvertita dal racconto stesso.
Con “ La disubbidiente”, il lettore è, assieme ai personaggi ricorrenti della trilogia, già immerso nel mondo del paranormale; per cui non avendo bisogno di nuovi approcci verso l’inconsueto, viaggia in libertà tra universi paralleli, seguendo un esperimento scientifico ideato in un futuro talmente reale da lasciare decisamente perplessi.
“Ombre senza tempo” invece, sposta il misterioso verso un piano più personale, sfiorando il campo dell’inconscio e della pazzia, riportando però, per paradosso, i personaggi verso la normalità del quotidiano, lasciando che le loro esperienze e avventure finiscano tra le braccia dei ricordi, in bilico tra sogno e realtà.
“La tela del Diavolo” è principalmente un viaggio nella complessa psicologia di un serial killer.
Un tuffo dentro due possibili aspetti della personalità di un assassino seriale.
Il mondo di chi uccide senza esserne cosciente e quello di chi uccide perché la cosa gli piace
RIFERIMENTI PITTORICI
Michelangelo Merisi da Caravaggio, 1599
Giuditta e Oloferne

olio su tela, 145 × 195 cm
Roma, Galleria nazionale di arte antica
Jacques-Louis David
La morte di Marat 1793

Musées Royaux des Beaux-Arts, Bruxelles
Tempera su tela, 165 x 128,5 cm
Gustave Courbet

(French, 1819–1877)

L'origine del mondo (1866)

Questo quadro accese polemiche ferocissime: venne messo al bando, costretto alla visione nascosta,
dietro un drappo, per piacere e tranquillità dei perbenisti più viziosi
Gustave Courbet

(French, 1819–1877)


Sleep, (1866)
Oil on canvas; 53 1/8 x 78 3/4 in.

(135 x 200 cm)
Petit Palais, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris
Pyke Koch

Extase

(1967), 60.5x75cm, oil on canvas

Collezione privata Olanda
Prima parte “Nella bocca del Drago”


Prologo



L’uomo allungò titubante la mano verso una strana maniglia d’ottone che luccicava debolmente sulla porta posta alla fine del corridoio.
Il battente sembrò aprirsi da solo ed egli ebbe la netta l’impressione di galleggiare nel nulla.
Bianco, luce, fastidio, angoscia.
Si accorse di aver chiuso automaticamente gli occhi ancora prima di avvertire il vento sulla pelle.
L’alito caldo che gli entrò nell’anima spazzò via inaspettatamente tutte le sue paure e avvertì le palpebre rilassarsi, mentre le pupille iniziavano a focalizzare sempre più nitidamente il tranquillo panorama della laguna.
In lontananza, quasi galleggiante nell’aria calda del pomeriggio, il rassicurante profilo dell’isola di Murano. Era fuori!
Il sole che gli scaldava la pelle aveva il potere di sciogliere anche il gelo che avvertiva dentro e, come chi si risveglia dopo un incubo e con sollievo ritrova attorno a sé oggetti familiari, così per lui, quella distesa di acqua calma e azzurra, tagliata dalle file di grosse briccole poste a delimitazione dei canali navigabili, contribuiva a far retrocedere in un angolo nascosto della sua memoria, l’angoscia e la paura delle ultime ore.
Avvertì che stava gradualmente riacquistando la coscienza del proprio corpo, ma quella sensazione gli procurò inaspettatamente un gorgoglio nello stomaco e il suo desiderio più impellente si focalizzò incredibilmente su un tramezzino con i gamberetti, accompagnato da un fresco calice di Prosecco.
Da una calletta poco distante svoltò improvvisamente un bambino di due o tre anni che gli sfrecciò ridendo accanto alle gambe, subito raggiunto dal richiamo imperioso di una giovane donna che lo inseguiva ansante, spingendo un leggero passeggino carico di pesanti borse della spesa.
Lui accompagnò mentalmente i passi affrettati della mamma e solo quando calcolò che fossero ormai arrivata in prossimità del ponte che li divideva dall’imbarcadero di Fondamenta Nuove, voltò la testa nella loro direzione.
Il piccolo stava salendo i gradini un passo alla volta, alzando sempre per primo il piede destro, concentratissimo.
La donna invece, per permettere alle ruote del suo carrello improvvisato di salire più agevolmente gli ampi gradini, si era voltata con le spalle al ponte.
Si vedeva chiaramente che era in difficoltà, ma l’istintivo impulso di aiutarla gli si bloccò sul nascere quando la vide voltare il capo verso una figura seduta ai piedi del ponte che lui ancora non aveva notato.
Osservò il volto grassoccio della mammina aprirsi in un leggero sorriso e, dopo un rapido cenno di saluto, ritornare con calma a concentrarsi sul passeggino.
Alcuni anni prima era rimasto affascinato da uno spot pubblicitario ove i personaggi si bloccavano di colpo. Foglie, abiti, capelli, sciarpe, si cristallizzavano in un fermo immagine perfetto, mentre al contrario, il punto di vista della telecamera continuava a ruotare lentamente, permettendo in quella surreale pausa tridimensionale di osservare con calma tutti i particolari della scena da diverse angolazioni.
Ora anche quella donna si era assurdamente immobilizzata dentro un silenzio irreale, la schiena curva nello sforzo di far superare un gradino al passeggino e il foulard azzurro, che prima gli svolazzava leggero attorno al collo, ora sembrava essersi tramutato in una scheggia di vetro veneziano posta in controluce.
Poi il punto di vista della telecamera immaginaria si spostò verso la figura accoccolata sui gradini, rivelando una giovane ragazza caratterizzata da una gran massa di capelli rosso fuoco e da una strana tuta aderente, fatta da quelle che sembravano a prima vista squame di serpente, anche se in verità molto più grosse e massicce. L’immagine s’ingrandì lentamente, soffermandosi sul primo piano di un volto bellissimo, orientaleggiante, con gli occhi chiusi, per scendere poi a osservare senza alcun pudore l’elegante profilo di un morbido seno.
Si abbassò ulteriormente per sfiorare la leggera rotondità di un ventre color giallo tenue, terminando infine la sua esplorazione andando a ruotare vicinissima a una coscia lunga e affusolata.
Ci fu un impercettibile rumore e subito la telecamera ritornò rapidamente sul volto della ragazza.
Ora gli occhi erano ben aperti e le pupille, di un giallo caldo e morbido, lampeggiavano al riflesso del sole.
Nel momento in cui le palpebre si chiusero e si riaprirono su quel metallo liquido, lui comprese; seppe senza margine di errore che quella ragazza non stava indossando uno stravagante abbigliamento, ma che quella che aveva appena visto era la vera pelle della ragazza.
Sul bellissimo viso si disegnò un sorriso divertito, che ebbe come unico effetto quello di farlo urlare spaventato mentre attorno a lui quell’intero mondo cristallizzato esplodeva in una miriade di frammenti.
Aghi luccicanti che svanirono poi lentamente, lasciando al loro posto un immenso buio, pregno dell’eco prolungato del grido che gli era sfuggito dal petto.
Poi il silenzio… silenzio e buio.
Dal nulla gli venne incontro un nuovo suono, dapprima lieve, poi sempre più forte, sino a diventare qualcosa di molto simile al galoppo di un cavallo, regolare e potente. Nell’istante in cui realizzò che non si trattava altro che del battito del proprio cuore, percepì che anche quel buio aveva dei limiti e dei confini e allungò prudentemente una mano in avanti per sondarlo.
Un fulmine alle sue spalle lo fece voltare di scatto.
Non vide nulla, anche se il suo inconscio registrò ugualmente l’immagine indistinta di una fluida massa rossastra.
Un altro lampo, seguito da una fitta lancinante alle tempie.
Mentre con il palmo delle mani si premeva con forza gli occhi doloranti, il suo cervello gli incollò sulle retine la sagoma inconfondibile di un drago cinese, subito seguita da un bagliore che sembrò illuminargli anche l’anima.
Il tempo cessò d’esistere.
Quando l’uomo riaprì lentamente gli occhi nel buio onnipresente, il suo cuore aveva ripreso il battito regolare. Aveva finalmente compreso!
Ora lui sapeva esattamente dove si trovava.
Nella bocca del drago!!
Con calma si voltò verso il punto che sapeva essere il più buio e profondo ed attese immobile, con serenità, l’enorme fiammata che ne sarebbe scaturita.        


    Michele Barovier si svegliò madido di sudore. Quell’incubo ricorrente incominciava a innervosirlo.
In vita sua non aveva mai dato eccessivo peso ai sogni, ma ultimamente la regolarità con cui questo si ripresentava, identico e immutabile, aveva qualcosa di veramente preoccupante.
Scosse il capo e con un’alzata di spalle si alzò dal letto per andare a riempire d’acqua bollente la vasca da bagno. Michele era l’ultimo discendente di un’antica famiglia veneziana arricchitasi prima con il commercio di stoffe importate dall’oriente e poi con la lavorazione di splendidi oggetti in vetro di Murano; ma di quei fasti era rimasto ormai solo un vago ricordo.
A lui la cosa sembrava non importare e quando occasionalmente il discorso cadeva sulle ormai perdute fortune della sua famiglia, il massimo che si riusciva a tirargli fuori era un sorriso melanconico, misto a una notevole dose d’ironia.
Era soddisfatto di se stesso.
A trentadue anni compiuti la sua vita era ormai avviata al meritato consolidamento, insegnava storia dell’arte al Liceo Artistico Statale di Venezia, riuscendo persino a riscuotere una certa simpatia dai suoi allievi; anche se a onor del vero erano le ragazze quelle che gli tributavano, più o meno velatamente, un ben più accentuato interesse. Lui però sorvolava sulla cosa.
Certamente un bel sorriso o uno sguardo leggermente più lungo del necessario lusingava il suo amor proprio, ma a parte la naturale attrazione maschile verso minigonne svolazzanti, il suo coinvolgimento emotivo finiva lì. Aveva una fidanzata ufficiale, Vanessa Della Vigna. Bella, bionda, alta.
Una splendida donna che teneva saldamente nelle proprie mani affusolate le redini della vita di entrambi, che si preoccupava di regolare attentamente i loro impegni per disporre del tempo necessario per fare regolarmente all’amore e garantire che i loro appagamenti fossero autentici e soddisfacenti.
Uscivano a cena almeno due sere la settimana, frequentando amici giusti e selezionati e soprattutto, grazie al proprio importante impiego alla Cassa di Risparmio di Venezia, lei aveva già preventivamente studiato un perfetto piano di mutui agevolati per la loro futura casa, per i mobili e per l’immancabile pensione facoltativa.
Unica seccatura era una fastidiosa indecisione sulla destinazione del futuro viaggio di nozze.
La sola stravaganza di Michele sembrava essere l’accentuato interesse verso la storia dell’Arte, cosa che a detta di tutti andava ben oltre un normale impegno professionale.
Passione così intensa che neppure Vanessa si era sentita di contrastare, anzi, si era addirittura convinta che avere come rivali donne come la Venere del Botticelli o dame eteree che tenevano in braccio deliziosi ermellini, fosse un elegante gioco che il passatempo del fidanzato le permetteva di fare con le sue amiche più intime.
Fu proprio per la totale predilezione che Michele aveva per i colori di Giotto o per l’eleganza formale espressa dal Botticelli, che si stupì di se stesso nell’accettare l’invito di una collega che lo pregava di accompagnarla all’apertura di una mostra di Caravaggio allestita nelle prestigiose sale del Museo Correr.
Il signor Michelangelo Merisi proprio non rientrava nei suoi gusti.
Certo ne apprezzava l’enorme talento, riconoscendogli il grande contributo dato alla storia della pittura; ma la sua vita disordinata e soprattutto quei colori, anzi, quelle ombre minacciose così presenti nei suoi quadri, erano lontane anni luce dalle tranquillità e dalle tonalità dei suoi artisti preferiti.
Carlotta era ormai giunta al suo ultimo anno di insegnamento, poi la pensione e questo, forse, era stato il vero motivo che quel giorno l’aveva indotto a salire la scalinata del Correr, nonostante che per arrivare avesse dovuto fare l’intero giro del globo a causa di una fastidiosissima acqua alta che sommergeva buona parte di Piazza San Marco.
Certo avrebbe potuto infilarsi un paio di stivali di gomma e guadare con attenzione le poche centinaia di metri che separavano il museo dal suo appartamento da scapolo, ma poi avrebbe dovuto tenerseli ai piedi per tutto il tempo della visita e l’idea che le sue suole squittissero a ogni passo sui pavimenti tirati a lucido non lo aveva per nulla convinto.
Senza contare inoltre, che con tutte le probabilità sarebbero stati presenti anche vari assessori e il sindaco medesimo.
Lei lo attendeva in cima alla scala, con in mano, bene in vista, i biglietti d’ingresso.
Michele ebbe un tuffo al cuore. Carlotta era alta, di carnagione scura, e nonostante fosse a un passo dalla pensione, era ancora ben dritta nel portamento e piena di vitalità.
Il suo eterno sorriso, unito a uno sguardo leggermente beffardo posto sopra a un seno ampio e pesante, lasciava intuire l’abitudine a essere ammirata e corteggiata; il fascino discreto di quella che sino a non molti anni prima era stata sicuramente una donna molto bella.
Inoltre era intelligente, arguta e molto preparata professionalmente.
Unico neo, i colori.
Sembrava che per lei non esistessero le comuni regole d’abbigliamento.
Se ti mettevi a contare, potevi trovargli addosso decine di colori differenti, senza alcun tentativo di coerenza o di abbinamento tonale.
A volte gli ricordava un attaccapanni collocato, al tempo dell’Accademia di Belle Arti, in un angolo di un appartamento che aveva avuto dalle parti di Campo S. Stefano.
Il classico piccolo appartamento da studente, affittato a seguito di un feroce attacco d’indipendenza e arredato con quello che si trovava al mattino presto accanto ai canali, prima del passaggio degli spazzini. Quell’attaccapanni lui se lo ricordava bene; sempre sommerso da sciarpe variopinte, giacche e giubbotti che la marea di amici vi buttava sopra alla rinfusa quando veniva a far finta di studiare, prima di mettersi poi tutti a rollare coscienziosamente e a parlar di tette.
Poi per fortuna nella sua vita era entrata Vanessa e tutto era finito.   
Carlotta lo salutò con la delicatezza che si usa verso un vecchio amante, prima di prenderlo con impazienza sotto il braccio.
<<Hai fatto colazione? Mi sembri palliduccio!>>
Disse senza guardarlo.
La vide poi sventolare i biglietti sotto il naso di una hostess perfetta nel suo completo blu scuro e prima che la poveretta avesse avuto il tempo di reagire si trovò trascinato dentro una stanza stracolma di gente.
Istintivamente Michele si diede un contegno.
Quasi senza accorgersi, con un gesto rapido ed efficiente si passò le dita tra i capelli e mentre con la coda dell’occhio riconosceva accanto alla finestra un alto responsabile dell’assessorato alle Belle Arti, controllò accuratamente l’orologio.
Fece un passo per andarlo a salutare e squittì!
Un altro passo e un ulteriore squittio, tutt’altro che sommesso, risuonò blasfemo nella stanza.
Si guardò i piedi, vedendo solo un paio di scarpe dei fratelli Rossetti, ma poi nel suo campo visivo entrarono con disinvoltura i gialli stivali da barca di Carlotta.
<<Cara professoressa, benvenuta! Sono lieto di rivederla! Mi sembra di ricordare che da sempre lei sia un’accanita ammiratrice di Caravaggio.>>
La voce proveniva da un completo di velluto verde-bosco, anche se l’espressione di derisione che aleggiava inconfondibilmente sul volto curatissimo del proprietario, l’assessore alla cultura Marco Visentin, esprimeva esattamente il contrario.
<<Visentin Marco!>>
La voce di Carlotta risuonò chiara e autorevole nella grande stanza luminosa e per un istante negli occhi dell’assessore passò il lampo di un timore riverenziale dimenticato da tempo.
<<Vedo che continua a piacerti essere sempre al centro dell’attenzione!>>
Il tono era così cortese che era difficile intuire l’ironia che invece brillava negli occhi nocciola della donna.
<<È un vero piacere costatare come interagiscano intelligenza e cultura con l’immagine mondana che si ha di loro.>>
<<Cosa?… Sicuramente! Un momento culturale notevole!>>
L’assessore, notevolmente a disagio, si rifugiò dietro a un affrettato cenno a un cameriere di passaggio.
<<Un calice di prosecco ?>>
Il tono risuonò eccessivamente acuto e Michele soffocò con abilità il sorriso, che inarrestabile gli stava modellando le labbra, dentro al bicchiere.
Poi, mentre la giacca verde-bosco scompariva rapidamente dietro lo smoking impeccabile di un altro cameriere, sussurrò all’orecchio di Carlotta:
<<Come diavolo fai a dire nulla con tante parole e a convincere nel medesimo tempo la gente che hai espresso qualcosa di molto profondo?>>
L’occhiataccia che ricevette in cambio lo fece desistere immediatamente da altri commenti.
La lancetta lunga del suo Rolex riuscì a compiere quasi due giri completi prima che si accorgesse all’improvviso d’essere da solo.
In lontananza, davanti a lui, scorse un gruppo di persone bighellonanti, registrando meccanicamente il senso di stanchezza e noia che esse emanavano.
Il senso di vuoto inaspettato gli riportò alla mente la sua collega.
<<Carlotta?>>
Le sue parole si persero nel nulla.
Si guardò attorno preoccupato e solo allora scorse la professoressa appoggiata allo stipite di una porta, alcune stanze indietro.
Imbarazzato, ritornò sui suoi passi e in quelle poche decine di metri si rese conto di quanto si fosse estraniato e quanta maleducazione avesse avuto nei confronti dell’amica.
Il fatto che Caravaggio non lo entusiasmasse affatto, non poteva certo giustificarlo dal comportamento tenuto.
<<Carlotta, io…>>
<<Zitto e ascolta!>>
La voce dell’anziana professoressa sembrava non avere tempo né età.
<<Pensi veramente che per quasi due ore ti abbia ascoltato parlare di pennellate e di chiaroscuri, di un nuovo modo di presentare la realtà, di prospettive scenografiche e altre stupidaggini del genere, senza rendermi conto che tu non c’eri?>>
Il tono della sua voce sembrava galleggiare nell’aria.
<<Sono vecchia ma non ancora rimbambita!
O pensi forse che abbia bisogno di te per farmi spiegare una tela?>>
<<Ma io…>>
La voce di Michele si era ridotta a un soffio.
<<Zitto! Guarda e poi dimmi cosa vedi!>>
Al comando, Carlotta aveva fatto seguire un arco pericoloso a un ombrello di plastica trasparente, color violetto, che Michele non aveva assolutamente notato prima e che la donna aveva appena puntato risoluta verso una parete.
<<È un quadro…>> Sussurrò Michele.
<<Deficiente! Certo che è un quadro! Siamo in un museo, non al mercato del pesce di Rialto!>>
Il tono della sua voce era notevolmente aumentato.
<<Che quadro è?>>
La voce di Michele aveva ripreso il consueto timbro professionale, anche se incrinato da un certo stupore.
«E che cosa vedi?»
Incalzò nuovamente Carlotta.
Ora fu il turno di Michele di rivelare impazienza e disappunto.
<<Vedo Giuditta che taglia la testa a Oloferne e la vecchia serva che attende di poterla aiutare! Tecnicamente posso dirti che…>>
<<Tecnicamente?>>
Gli occhi nocciola dell’anziana signora erano virati pericolosamente verso una tonalità marrone scuro.
<<Tecnicamente! Ma non sai vedere proprio altro?>>
Michele a quel punto perse del tutto la pazienza e il senso d’imbarazzo precedente fu sostituito da una profonda irritazione.
Che diavolo faceva lì, davanti a un quadro che non gli piaceva, a sentirsi criticato e giudicato da una vecchia zitella con stivali gialli ai piedi e un ridicolo ombrello in mano?
Si girò determinato verso di lei voltando le spalle al quadro, ma la dura replica che si preparava a dare gli rimase bloccata in gola.
Carlotta, con un gesto fluido e sicuro, gli aveva appoggiato il palmo della mano sulla pancia, appena sopra la cintura di coccodrillo.
<<Quando hai avuto il tuo ultimo vero orgasmo?>>
Si sentì chiedere.
Le parole sembrarono penetrare nel suo ventre assieme alla pressione della mano, e quel contatto e l’intimità della domanda assolutamente fuori luogo lo disorientarono completamente.
Guardò prima il dorso della mano della donna, sorprendendosi a osservare la miriade di rughe che la ricoprivano, mescolate al rapido guizzare di piccole vene azzurre, poi alzò lo sguardo verso gli occhi che aveva di fronte.
Sembrava ora che un torrente d’oro fuso scorresse placido sotto le palpebre socchiuse.
Sentì aumentare notevolmente la pressione della mano.
<<Questo è il punto del terzo chakra!>>
La voce aveva ora assunto lo stesso calore della lava presente negli occhi.
<<Chakra?>>
Nel momento stesso in cui Michele udì il suono della propria voce, la spinta aumentò a dismisura e sentì il proprio corpo proiettato violentemente all’indietro.
Contro il quadro!
Quando urtò con le spalle la tela, il suo pensiero corse all’assurdità della catastrofe in atto: una donna impazzita, un capolavoro lacerato, l’altrettanto lacerante urlo della sirena dell’allarme che sarebbe immediatamente scattata accompagnata da un pesante bagaglio di sconcerto e di vergogna.
I secondi passavano veloci, ma lui non avvertiva nessun suono riempire lo spazio, mentre invece la sua caduta sembrava non avere fine.
Continuò a cadere, avvolto in una nebbia sempre più densa, sino a che divenne solida sotto di lui.
Con un certo sforzo si mise in ginocchio, il palmo delle mani sudate appoggiate su un freddo pavimento.
La testa gli faceva male e una miriade di punti luminosi erano intenti a roteare impazziti dentro i suoi occhi.
Allungò titubante una mano e avvertì sotto i polpastrelli quella che pareva una stoffa calda e ruvida.
Con avidità si aggrappò a quell’unico contatto con la realtà, mentre i suoi occhi si stavano intanto abituando alla fioca luce circostante.
Proprio sotto il suo naso riusciva ora a scorgere un paio di informi ciabatte di stoffa, di un colore sporco e indefinito, ma che poteva essere stato una volta un bel rosso vivo.
Dall’odore, che s’infilò perfido dentro suo naso, comprese più che vedere che erano abitate da pesanti calzettoni, a loro volta un tempo sicuramente bianchi, che fasciavano caviglie ossute.
Mentre il suo cervello realizzava che quello che stava stringendo nella mano era l’orlo di un’ampia gonna di lana grezza, un oggetto scuro si spostò sopra alla sua testa e una lama di luce andò ad illuminare il volto rugoso e terrorizzato di una vecchia.
Aveva la bocca aperta in un urlo silenzioso e un po’ di bava biancastra schiumava leggermente tra gli unici due denti sopravvissuti nelle gengive rossastre.
Sotto una piccola cuffia, pochissimi capelli bianchi lasciavano intravedere una cute macchiata e lucida e, più sotto, occhi spalancati testimoniavano quello che era indubbiamente un vero istante di terrore.

Qualcosa di denso cadde a colpire la sua mano e un liquido scuro gli s’infilò appiccicoso tra il polso e il cinturino dell’orologio.
Michele non aveva mai avuto una simile esperienza prima d’allora, ma comprese immediatamente, senza margine d’errore, che si trattava di sangue.
Tanto!
Le mani della vecchia presero a tremare impazzite e il nero involucro che la donna teneva in grembo ondeggiò pericolosamente.
Improvvisamente Michele vide aprirsi uno squarcio in quella massa scura e qualcosa ne sgusciò fuori cadendogli tra le braccia.
Era un uomo!
Gli ci volle qualche istante per realizzare che però mancava tutto il corpo.
Tra le mani aveva solamente una testa tiepida che stava inconsciamente  reggendo per la barba.
Sconvolto, rimase pietrificato a guardare due occhi scuri che lo stavano fissando a loro volta, colmi di altrettanto orrore.
Uno strillo acuto alle sue spalle lo fece voltare terrorizzato.
Di fronte c’era ora una bellissima ragazza in un vestito giallo-ocra su cui spiccavano nitidamente alcune strisce nere.
Una leggera camiciola bianca era tesa su un seno bellissimo, grande e sodo, con i capezzoli così eretti che solo un’eccitazione violenta poteva aver provocato.
Sul bellissimo volto, l’incredulità stava ora disegnando una miriade di piccoli movimenti incontrollati.
Vide la ragazza portare il dorso della mano sinistra alla bocca e distinse i piccoli denti bianchissimi incidere con forza la tenera pelle vellutata.
Un lampo di determinazione che saettò negli occhi della ragazza, lo mise però in allarme, permettendogli di notare il movimento del suo braccio destro, seminascosto dietro un drappo rosso.
Un istante dopo, rapidissimo, arrivò il fendente.
Se la ragazza non fosse stata così sconvolta, lui sarebbe sicuramente morto e la sua testa sarebbe rotolata a far compagnia a quella che nel frattempo gli era sfuggita di mano.
Nella fretta del gesto, la punta della lama di una pesante spada che la donna teneva nascosta, si era impigliata nel tendaggio che pendeva dal soffitto e il colpo, così deviato, ottenne come unico effetto solo quello di provocare alcune scintille sul pavimento.
Michele schizzò in piedi e con l’intento di mettere più oggetti possibili tra sé e quella lama assassina, cercò riparo oltre il letto che sembrava occupare tutto lo spazio alla sua sinistra.Incredulo, avvertì il suo piede destro impigliarsi nel grande lenzuolo macchiato di sangue e cadde a testa in avanti nel buio che aveva di fronte.
Anche questa volta la caduta sembrò nuovamente eterna, ma l’atterraggio in compenso fu sicuramente più morbido e si ritrovò avviluppato in caldi panni che coprivano inutilmente candide gambe femminili.
Confuso cercò di rialzarsi, ma l’unico risultato che ottenne fu quello di rivelare ulteriormente l’interno di una coscia pienotta e levigata.
Scivolò malamente e il suo naso si arrestò a pochi centimetri dall’inguine indifeso della donna.
Un pungente odore di urina gli colpì l’olfatto, mescolato alla lieve fragranza del gelsomino.
Istintivamente cercò di ricoprire la donna, ma la gonna giallo-ocra, solcata da una grande striscia nera che strinse nella mano, lo fece rabbrividire.
Con un balzo fu in piedi, inseguito da un piccolo grido divertito, poi un drappo rosso gli cadde sulla testa, coprendogli del tutto la visuale.
Con furia lo scagliò di lato, preparandosi nel contempo a difendersi strenuamente.
La donna, invece, era rimasta seduta a terra, con le gambe allargate e con la gonna che non nascondeva ormai assolutamente più nulla della sua intimità.In mano reggeva una spada tagliente, ma faceva fatica anche solo a tenerla sollevata e la punta sembrava essersi sincronizzata sul dondolio dei suoi grossi seni, scossi da una risata senza freno.
Un’imprecazione lo fece voltare.
Da dietro una grande tela posata su un cavalletto da pittore, era nuovamente spuntata la testa tagliata di prima, con tanto di barba.
Solo che ora non c’era tutto quel sangue e soprattutto era perfettamente attaccata a un corpo robusto, rivestito con un elegante abito di velluto.
Posato vicino al cavalletto, il fodero vuoto di una spada.Michele sconvolto si mosse adagio, con le spalle ben appoggiate al muro della stanza, gli occhi puntati sui due sconosciuti mentre tentava di raggiungere una porta che aveva intravisto alla sua sinistra.
Lo stupore che aveva coinvolto tutti quanti era palpabile e il tempo stesso sembrava aver rallentato la sua corsa, consentendo però ugualmente a Michele di avvicinarsi al suo obiettivo.
Ma a pochi passi dalla porta lanciò uno sguardo in direzione della tela, ora perfettamente visibile e il cuore gli si fermò.
Vivida, fresca e palpitante, “La decapitazione di Oloferne” era lì, davanti ai suoi occhi!
Alcune parti del dipinto avevano ancora il pigmento bagnato e sembravano aspettare impazienti di ricongiungersi con il colore che gocciolava indifferente dal lungo pennello che il pittore stava tenendo in mano.
Ora la Giuditta in carne ed ossa si era alzata in piedi e Michele poté osservare quanto simile fosse a quella del quadro; le uniche differenze erano le grosse borse sotto gli occhi, che la seconda non aveva e il colorito sano e abbronzato che solo la prima ostentava impudentemente.
Michele tornò a osservare l’uomo e nella battaglia che ne seguì, tra il suo inconscio che non aveva dubbi e il suo cervello che si rifiutava di credere, vinse il suo raziocinio.
Fu però una vittoria pagata a caro prezzo; le gambe incominciarono a tremargli e sentì gli occhi riempirsi di lacrime.
Si lanciò verso la porta spalancandola con violenza, oltre, solo un lungo corridoio buio.
Senza pensarci si mise a correre con le mani protese in avanti, ma con tutto il resto del suo essere teso a sentire cosa stava accadendo dietro di lui.
Ben presto rimase senza fiato e si appoggiò stremato contro la fredda parete del cunicolo.
Solo dopo che sentì diminuire il rombo assillante dentro le orecchie e i polmoni smettere di bruciare; solo quando non udì infine più alcun rumore e capì di essere solo, completamente solo, allora pianse!
Ci volle ancora molto tempo prima si raddrizzasse, ricominciando a tentoni ad andare avanti nel buio.
Si trovò di fronte alla porta quasi senza accorgersene.
Una piccola, massiccia porta di legno scuro, su cui spiccava una lucida maniglia di ottone finemente lavorato.
Lentamente Michele allungò la mano.
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