Dossier Betelgeuse - UNICORN

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Gianfranco Pereno
DOSSIER BETELGEUSE
La caccia a un misterioso piano economico che ha la potenzialità di modificare la struttura sociopolitica del pianeta, iniziata negli anni '40 dalle SS Naziste, riesplode con tutta la sua ferocia con l'uccisione di un' anziana giornalista e con l' inseguimento spietato della figlia, una giovane economista che, all'oscuro di tutto, si trova a lottare per la vita contro un'élite dai poteri illimitati e disposta a qualunque cosa pur di impossessarsi  di un fantomatico "Dossier Betelgeuse".
DOSSIER BETELGEUSE




PROLOGO



Venezia 3 marzo 1944


Quasi non respirava nel puerile tentativo di trattenere il più possibile il profumo di borotalco nelle narici.
Avvertiva, appiccicato alla pelle, l’odore caldo e sensuale di Ines e prese mentalmente nota di cambiarsi la camicia prima di cena, altrimenti suo padre avrebbe capito immediatamente che era stato al casino e sarebbero diventati guai seri.
Era praticamente arrivato in campo San Bartolomeo quando, rendendosi conto di non avere sottobraccio la cartella dei disegni si bloccò di colpo, incredulo della sua stessa stupidità.
Come diavolo aveva fatto a dimenticare la grande cartella di cartone con dentro tutto il lavoro della mattinata!
E con il professor Pesetti che l’aveva preso di mira poi!
A fatica Luca represse un’imprecazione; quel rompiscatole non si sarebbe di certo fatto sfuggire l’occasione di riprenderlo davanti a tutti e dal momento che già aveva faticato non poco ad adattarsi all’ambiente dell’Accademia di Belle Arti, non ci teneva affatto a venire ulteriormente sbeffeggiato.
Le iscrizioni al primo anno non erano state molte e il suo fisico mingherlino non lo aveva certamente aiutato a proteggersi dai mille piccoli soprusi messi in atto dai coglioni dell’ultimo anno, che ormai si sentivano già artisti affermati.
Soprattutto quelli in camicia nera.
Mentre tornava di corsa sui suoi passi però, l’idea di poter rituffare il volto tra i seni pesanti di Ines, anche solo per un breve istante, gli fece dimenticare tutti i brutti pensieri, ma, svoltato un angolo in piena velocità, si trovò di fronte due soldati tedeschi.
Alzare le braccia d’istinto, per poi catapultarsi in una calletta laterale, fu un tutt’uno, terrorizzato dall’essere centrato da un colpo di fucile.
Solo dopo un paio di ponti si fermò a riprendere fiato.
Che diavolo ci facevano due SS davanti al portoncino del casino?
Sapeva bene che in bacino di San Marco erano ormeggiate ormai da mesi navi da guerra tedesche e che decine di pattuglie della Wehrmacht perlustravano Venezia da cima a fondo, ma le SS non erano numerose e i loro ufficiali si servivano sicuramente di casini più quotati di quelli che poteva permettersi lui.
Fu tentato di mandare tutto al diavolo e correre a casa, ma il sorriso giallognolo di Pesetti si materializzò davanti ai suoi occhi vanificando nel suo cervello qualsiasi idea sensata, e quindi con estrema cautela, ritornò un’altra volta sui suoi passi, silenzioso e con le orecchie ben tese.
Dei tedeschi nessuna ombra.
In fondo alla calle, il portone socchiuso del casino sembrava invitarlo accattivante e dopo alcuni eterni minuti di attesa Luca si convinse che i soldati dovevano essere andati via e non avevano nulla a che vedere con le puttane.
Comunque la prudenza non era mai troppa e dato che le voci che giravano sulle SS non erano affatto rassicuranti, con noncuranza tornò sui suoi passi per salire su una vecchia gondola ormeggiata all’ombra di un ponte.
Sciolta con naturalezza la cima d’ormeggio, appoggiò tutto il corpo alla briccola e impresse una spinta sufficiente per spingere la barca dalla parte opposta del canale.
Silenziosamente lo scafo nero scivolò sull’acqua calma, aiutato da una leggera corrente di marea.
Il casino era al primo piano di un vecchio palazzo nobiliare e se ora l’ingresso era situato in una stretta calletta che sbucava, dopo un centinaio di metri, nell’ampio campo di Santo Stefano, ostentava ancora il grande portone acqueo che un tempo fungeva da accesso principale; con i suoi massicci gradini di pietra che scendevano nell’acqua scura e le paline d’ormeggio che recavano, ancora visibili, i colori della casata.
Da anni in disuso, il portone sembrava stare su solo grazie agli infiniti chiodi che ne trapassavano il legno pregiato, ora spietatamente corroso dall’acqua di infinite maree e ormai sicuro rifugio solo per le colonie di pantegane che infestavano la città.
Facendo attenzione a non scivolare sui gradini ricoperti da alghe verdastre, Luca afferrò la catena arrugginita che bloccava tra loro i due pesanti battenti e tirò con forza.
Con un sorriso vide aprirsi un varco sufficiente a far passare un uomo.
Era sicuro che non tutti i frequentatori del casino amassero farsi vedere mentre oltrepassavano il portoncino d’ingresso e quella via, specialmente di notte, doveva essere utilizzata abitualmente.
Con agilità sgusciò tra i battenti e il suo sorriso divenne più aperto quando, a conferma dei suoi sospetti, vide alcune lampade ad acetilene pendere ordinatamente da una serie di grossi chiodi conficcati nel muro scrostato.
Evitò con cura la scopa di saggina appoggiata al muro, sicuramente più idonea a sgombrare la via da sgambettanti inquilini che a mantenere pulito il pavimento e con cautela s’inoltrò nel palazzo.
Ben presto individuò le scale che portavano al primo piano e fatti i gradini due alla volta si fermò davanti alla porta del casino, stranamente socchiusa, perplesso l’aprì con delicatezza aspettandosi di trovare donna Agnese seduta al suo solito tavolino, nel minuscolo ingresso tappezzato di velluto rosso.
Ma non c’era nessuno e qualcosa d’innaturale aleggiava tutt’attorno, nessuna risata di donna, nessun fruscio di sottovesti o passetti veloci che tamburellavano sui lucidi pavimenti.
A parte Caruso, gracchiato malamente dal grammofono collocato come sempre accanto ad un grande vaso di fiori, non c’era anima viva.
Luca, immobile in mezzo alla stanza, ragionò rapidamente sull’ora, possibile che le ragazze cenassero presto e che tutte fossero in cucina?
Dal momento che le rare volte che si era ritrovato in tasca i soldi necessari per una marchetta, era sempre venuto nel pomeriggio, non conosceva bene gli orari della casa.
Il più delle volte arrivava trafelato, ancora eccitato dall’ancheggiare allusivo delle modelle che al mattino andavano a posare per quelli degli ultimi anni, gli stronzi che lasciavano apposta socchiuse le porte delle loro aule solo per far sbavare d’invidia le matricole come lui, ancora obbligate a copiare gessi sporchi e sbocconcellati.
I Pagliacci... ecco cosa girava sul piatto del grammofono...
Un acuto di Canio lo fece sussultare, poi la voce potente di Caruso lo accompagnò verso la camera di Ines.
Nel pomeriggio la donna era stata come sempre adorabile, insuperabile nell’usare il suo morbido corpo da trentenne per assecondare la bramosia delle sue mani, e non solo quelle, affannate nel tentativo di afferrare il massimo del piacere e del peccato, ma verso la fine era apparsa improvvisamente nervosa e l’aveva quasi cacciato via, mentre lanciava continui sguardi verso la finestra socchiusa.
E proprio per quello, a metà offeso e a metà preoccupato di non essere stato all’altezza, era andato via frustrato, dimenticando la cartella dei disegni.
Oltrepassò alcune porte aperte e i letti disfatti indicavano chiaramente che le attività erano state sospese, forse in attesa che le camere venissero ripulite per la serata e la notte.
La porta di Ines era invece chiusa.
Luca immaginò che la donna fosse ancora dentro e non per un solo attimo gli passò per la testa che stesse intrattenendo qualche cliente importante e che la sua comparsa improvvisa e inopportuna potesse costargli l’interdizione a vita a quella casa di piacere.
E Ines c’era, nuda sul letto, sola, ma Luca quasi non la riconobbe.
Il volto era una maschera gonfia, violacea, come erano violacei i piedi e mani, quasi elementi estranei rispetto ai polsi e alle caviglie strettamente legate alle sbarre di ottone del grande letto.
Il ragazzo non aveva mai visto un corpo torturato, ma la miriade di bruciature rotonde all’interno delle cosce e sui seni della donna non avevano bisogno di nessuna spiegazione.
Intanto alle sue spalle Canio aveva nel frattempo afferrato Nedda per i capelli e la stava trafiggendo con il suo coltello.
Il disordine nella stanza era spaventoso, sembrava che un esercito di macellai avesse sventrato ogni cosa, i cuscini, il divanetto, la grande poltrona; tutto era stato messo a soqquadro, libri sparpagliati ovunque e i quadri fracassati sul pavimento, mescolati a vestiti ridotti a brandelli informi.
“Arresta! Gesummaria!”
Urlò la folla, poi la voce stentorea di Caruso:
“La commedia è finita!”
Luca era terrorizzato, incapace di muovere un solo muscolo, ma il suo sguardo fu ugualmente attirato dalla cartella di cartone buttata in un angolo, da cui fuoriuscivano i suoi disegni stropicciati e meccanicamente la raccolse, stringendosela al petto.
Una porta sbattuta lo fece sobbalzare, anche Canio se n’era andato, lasciandolo solo con… Ines.
Il tempo di realizzare che quella porta non poteva averla certamente sbattuta Caruso, che il suono cadenzato di stivali rimbombò nel corridoio.
In un lampo il ragazzo si fiondò verso l’ingresso, mentre ordini secchi gli perforavano la schiena; la raffica del mitra aprì buchi enormi nel battente della porta, ma Luca stava già scendendo le rampe della scale come uno scoiattolo impazzito.
Quando disse a suo padre che aveva la febbre e che non avrebbe cenato, non dovette mentire affatto, aveva la faccia pallida e la fronte che scottava, le tempie gli battevano forsennatamente e il cuore che non voleva saperne di ritornare a un regime sopportabile.
S’infilò il pigiama e si cacciò sotto le coperte, terrorizzato dal sentire schiantarsi l’uscio e vedere la casa invasa dall’intera Wehrmacht, invece s’addormentò di colpo e non avvertì nemmeno la porta socchiudersi sotto lo sguardo pensoso del padre e la sbirciatina curiosa di Emma, tre anni di incontenibile energia.
Il mattino dopo rimase a letto, totalmente incapace di pensare e di togliersi dal naso l’odore nauseante di carne bruciata e borotalco.
Solo verso sera si fece vedere in cucina, con l’unico risultato di far passare lo sguardo del padre dal pensoso al preoccupato.
Fu verso le due del mattino che trovò il coraggio di ripensare a Ines, ma solo dopo che la donna era finalmente riuscita a riprendere la sua fisionomia consueta e il sorriso materno, in netto contrasto con il rossetto spalmato sulle labbra sensuali, l’aveva calmato e gli aveva scaldato il cuore.
Prese la cartella dei disegni che aveva gettato in un angolo e l’aprì sul letto, con sollievo vide che dentro c’erano tutti i disegni che doveva presentare al professor Pesetti e anche se qualcuno era malamente stropicciato poteva sempre tentare di stirarlo.
Da quando la mamma era andata via, aveva diviso con il padre i lavori di casa ed era toccato a lui sia lavare che stirare per tutti, per cui il vecchio ferro da stiro, da riempire con i carboni ardenti della stufa, non aveva segreti per le sue mani agili e precise.
Mancava solo uno dei due schizzi che aveva fatto alla sorellina e fu proprio scartabellando alla sua ricerca che trovò la busta.
Era stata infilata tra i due strati di cartone della cartella, proprio sotto uno dei lacci che servivano a chiuderla; incuriosito la rigirò tra le dita, prima di aprirla con delicatezza, estraendone alcuni fogli leggerissimi e costosi, ricoperti interamente da una calligrafia minuta ed elegante.
Ricontrollò la cartellina, costituita da due spessi fogli di cartone del formato di circa settanta centimetri per cinquanta, rinforzati sugli angoli da un nastro telato nero, lo stesso che li univa poi assieme per uno dei bordi lunghi, lasciando a sottili lacci di stoffa il compito di tenerla chiusa, e solo in quel momento Luca si accorse che in realtà il pesante cartone era costituito da due fogli più leggeri incollati tra di loro.
E qualcuno, forse con un tagliacarte affilato, aveva separato i due strati per ottenere lo spazio sufficiente a contenere la sottile busta, e quel qualcuno poteva essere stato solamente Ines.
La facciata della busta era completamente bianca, mentre sul retro un timbro nero recava la scritta: BETELGEUSE, accompagnato da un altro timbro rosso che avvertiva che il contenuto del plico era CONFIDENZIALE.
Perplesso prese in mano il primo foglio e incominciò a leggere.
Quando alle cinque e dieci la sveglia di suo padre fece vibrare la casa, Luca era con gli occhi sbarrati a fissare il soffitto della sua cameretta, ancora confuso su quanto aveva letto e solo quando udì chiudersi la porta della stanza da bagno, prese la sua decisione.
In silenzio gettò più vestiti che poteva dentro la federa del cuscino, poi da sopra l’armadio prese il barattolo dei suoi risparmi e si riempì le tasche con le poche banconote e le tante monete che conteneva, un’ultima occhiata in giro e uscì furtivo dalla sua camera con le scarpe in mano.
Se Ines era stata barbaramente torturata per quei documenti, anche lui rischiava grosso, non pensava certo di essere stato riconosciuto, ma continuare ad andare all’Accademia era comunque troppo pericoloso.
Portando via la cartella dei disegni poteva aver dato alle SS un indizio importante e se si mettevano a tener d’occhio le scuole d’Arte, prima o poi qualcuno lo avrebbe associato al misterioso intruso e sarebbe stata la fine non solo per lui ma anche per tutta la sua famiglia.
Meglio sparire, suo padre non avrebbe mai capito, ma almeno si sarebbe salvato.
Dalla porta socchiusa della camera grande filtrava un po’ di luce e Luca ne approfittò per dare un ultimo sguardo a Emma che, da quando la mamma era andata via, riusciva ad addormentarsi soltanto nel lettone, avvinghiata al braccio del padre.
Nel vedere il letto vuoto fu al momento colto dal panico, ma poi intuì che il padre, forse preoccupato che anche Emma potesse a sua volta ammalarsi, quella notte l’aveva portata a dormire dai vicini, lavorando dodici ore al giorno come carpentiere all’Arsenale, non poteva certo permettersi di avere a casa una bambina febbricitante.
Lo sciacquone del bagno lo fece sobbalzare e afferrata una delle bambole della sorellina uscì silenziosamente sul pianerottolo, ancora a piedi scalzi salì al piano di sopra, estraendo nel frattempo dalla tasca della giacca il moncherino di un grosso lapis rosso e blu.
A stento si trattenne dal bussare alla porta dipinta malamente di verde, poi, con le lacrime agli occhi, con la parte rossa del lapis scrisse “ti voglio bene” sulla gonna bianca della bambola.
Aveva appena messo il piede sul primo gradino del ponte che una mano ricoperta di pelle nera gli artigliò la spalla.
Spaventato, Luca si voltò di scatto.
L’inconfondibile cappello degli ufficiali delle SS era appoggiato sulle più assurde orecchie a sventola che avesse mai visto, ma gli occhi slavati, privi di qualsiasi espressione e la lunga cicatrice che accentuava la lunghezza di un volto scarno e pallidissimo, non avevano nulla di ridicolo.
Un corto frustino di cuoio tamburellò sulla federa piena di abiti che portava sottobraccio, mentre un sopracciglio biondo e curatissimo si arcuava in modo interrogativo.
Senza ragionare Luca si divincolò come una pantegana e schizzò verso il portone di casa, mentre una risata fredda rotolava dietro di lui.
Riuscì ad infilarsi oltre il battente e a mettere il catenaccio, poi salì le scale di corsa, la mente in subbuglio e lo stomaco stretto in una morsa lancinante; arrivato alla porta verde, afferrò la bambola e infilatale la busta sotto la gonna, l’incastrò alla maniglia, quindi scese a rompicollo verso il suo appartamento.
Lo schianto del portoncino d’ingresso rimbombò per tutto il caseggiato, bloccando il padre sull’uscio di casa, le chiavi in una mano e la gavetta con il pranzo nell’altra.
«Scappa!!»
Urlò Luca, mentre raggiungeva il pianerottolo e si lanciava verso il suo sguardo allibito.
«Il canale! Buttiamoci in canale!»
Ma le raffiche dei mitra li inchiodarono sul battente della porta.
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